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By Travel Quotidiano

lunedì 17 gennaio 2011

IL TAM TAM DELLA SIBERIA

Stregoni. Guaritori. Veggenti. Come già faceva notare lo storico Mircea Eliade nella sua monumentale opera, “Lo sciamanismo” (Ed. Mediterranee), sono molti i nomi e le funzioni riconosciuti ai medici della tradizione siberiana. Eclissatisi nel periodo sovietico, stanno piano piano riemergendo e riportando in auge una spiritualità animista mai sopita, oltre che metodi di cura di stampo olistico: danzano sino alla trance per ricercare i pezzi d’anima smarriti dai propri pazienti nei Tre Mondi, leggono il futuro passando le scapole di capra sulle fiamme, acquisiscono poteri dagli animali e dialogano con le anime dei morti. Giudicati pazzi e imbroglioni dai bolscevichi, gli sciamani vengono oggi considerati l’ultima àncora di salvezza dai fallimenti del razionalismo occidentale, oltre che il simbolo di un’identità etnica troppo a lungo schiacciata.     

A volte ritornano. Relegati nelle appendici più remote della Russia asiatica, dalla Yakutia alla Buriatia, dall’Evenkia alla Kamčatka, gli sciamani dagli occhi a mandorla si sono infine scrollati di dosso 70 anni d’ateismo di Stato, ricacciando lo spettro del Comunismo in qualche defilato antro del Mondo Inferiore.  Lotta lunga ed umiliante, che ha mietuto vite con la stessa ineluttabilità delle trebbiatrici rosse, cui la collettivizzazione per troppo tempo li ha costretti, sempreché fossero scampati alla morsa dei gulag: all’inizio del XX secolo, solo nei territori al confine con la Mongolia si contavano almeno 20 monasteri buddhisti occupati da quattromila lama. Dispensavano responsi, guarivano da gravi malattie e presiedevano ai solenni eventi delle rispettive comunità, stando spalla a spalla con duemila sciamani. Medici per antonomasia: del corpo, così come dell’anima.






Poi la luce degli stupa si è oscurata. I fuochi rituali si sono spenti. Le preghiere sono state azzittite. Ma solo apparentemente; perché sotto le ceneri ha continuato a covare quella fiamma della predestinazione sacra che, per divampare, attendeva solo il vento secco del sud. E’ arrivato da Ovest, ma ugualmente ha fatto terra bruciata di un credo che non voleva accettare la sua fine: oggi sono ben cinque le società sciamaniche di rilievo a Tuva, il cuore della rinascita degli antichi culti nomadi, e a loro fanno capo più di duecento affiliati, decisi a ristabilire il corretto equilibrio fra il mondo dei vivi e quello degli spiriti.


Troppi spettri vagano ancora inquieti per le lande del dolore. Lo sa bene Saylyk-ool Kanchyyr-ool, l’uomo al quale il padre lasciò in eredità cinque cicatrici sul collo a forma di zampa d’orso, animale di potere cui ha scelto di consacrare il proprio centro cultuale a Kyzyl, la capitale della piccola repubblica tuvina al confine con la Mongolia. In periferia c’è qualcuno che si lamenta. Urla per le paludi, lancia improperi, tende sinistre trappole. Sotto le acque mefitiche che lambiscono la cittadina siberiana sono annegate non poche vacche.



Loro pretendono rispetto ed attenzione – ammonisce con voce grave, mentre raccoglie legna per un falò sacrificale – perché nessuno li ha più ricordati da quasi un secolo a questa parte. Li hanno assassinati sotto queste betulle, contorte dal dolore, semplicemente perché non volevano credere alla parola dei bolscevichi, ma a quella dei loro avi. I loro corpi sono da qualche parte, qui sotto, nel fango, ma le loro anime non vogliono lasciarci soli. O forse, non vogliono restare sole”.



China il capo alla notte. All’orizzonte non c’è nessuno, ma chi ha occhi da Cosacco non vede mai bene. Veste un costume in pelle d’orso, da cui pendono piume d’aquila e lembi di cuoio simili a serpenti. Piccoli totem di metallo tintinnano sul petto. Preludio alla convulsa danza che il suo tamburo a tracolla sta evocando attraverso un antico canto alghisc: “Lascia che il tamburo risuoni e di nuovo il vento chiami; lascia che sgombri la soma della sofferenza, sino alla radice più profonda; lascia che il tamburo rulli la sua melodia e mormori il battaglio; lascia che l’inquietudine se ne vada col vento. Per sempre…”.



Saylyk-ool Kanchyyr ha abbandonato questa terra. E’ vero, ancor si muove davanti agli occhi dell’ordinario, ma i suoi passi non hanno più nulla di umano. Cambiano ritmo, non trovano appoggio, lo giocano a terra. I suoi occhi sono eclissati dietro lo strazio delle rughe. La sua voce è greve e distorta come il muggito delle vacche, appese per le costole sulle bianche piante della paura. Il suo indice è ritto, a dispiegare il vuoto di una ferita che solo la memoria potrà colmare.




Ma non sono solo gli spiriti dei vecchi pastori a chiedere un po’ di conforto, anelando il fumo delle primizie loro offerte sul fuoco. C’è chi fugge dal neon dell’Occidente, chi cerca una nuova via preclusagli dalla sordità della propria chiesa, c’è chi ha avuto paura di perdere il proprio potere, come il vecchio zar Boris o il suo pupillo Vladimir. Per Kyzyl sono passati in tanti. Forse troppi. Lo sciamanesimo non è mai stata la panacea di ogni male, bensì un laborioso tentativo di raddrizzare ciò a cui la volontà ha mollemente rinunciato. Eppure qualcuno sembra essersene dimenticato. Oppure finge. Finge di non sapere.

Ay-Churek Oyun ha fatto della sua vocazione una professione. Sotto le piume del suo costume tiene in tasca un bigliettino da visita, tradotto in inglese e russo: “Chairwoman of the Centralized religious organization of Tuva’s Shaman Tos Daar”. E’ una sciamana con tanto di certificato internazionale. Quando non chiede soldi ai turisti in cerca di facili emozioni, organizza conferenze o simposi su problemi psico-spirituali in tutto il mondo. Stati Uniti, Francia, Svizzera. Persino in Italia. Non corre buon sangue fra lei e Saylyk-ool Kanchyyr-ool. Uno sciamano ha bisogno della sua terra per conservare i propri poteri. Altrimenti è solo teatro e parole. Chiacchiere e distintivo.

 E a Kyzyl inizia ad esserci troppo rumore: sarà perché il concorso di Miss Tuva promette ogni Ferragosto di premiare la ragazza più bella della Siberia; sarà perché assistere al festival del Naadim è un po’ come proiettarsi al tempo di Gengis Khan e dei suoi arcieri a cavallo, ma gli sciamani – quelli veri - sono tornati a mettersi in cammino. Verso nord, lontano dagli strepiti, vicino alla montagna sacra di Buyan Tugad, diretti alla gola che si apre sull’isola di Olkhon, sperduta nel cristallino Bajkal; o ancora più in là, oltre i torrioni cambrici dell’immensa Yakutia, proprio là, dove ogni interrogativo s’azzittisce nel ghiaccio eterno. Quel ghiaccio che ieri soffocò la marcia dei Mammuth ed oggi spregia l’oro dei compromessi.




TUVA IN PILLOLE



La Repubblica di Tuva è una piccola escrescenza della Mongolia che sorte vuole sia stata racchiusa in territorio federale russo, nel punto in cui la taiga cede il passo alla steppa. Protetta alle spalle dai monti Sayan, è abitata da circa 310mila pastori nomadi, che credono in una forma religiosa a metà strada fra lo sciamanesimo ed il buddismo. Per secoli è stata terra di conquista: di qui sono passati gli Uiguri della Cina, i Turchi dell’impero kirghiso, senza dimenticare il terribile Gengis Khan. Proprio il ceppo mongolico è quello radicatosi sul territorio con maggior insistenza, tant’è che i Tuvini sono considerati “cugini” dei Mongoli: parlano un dialetto affine, suonano i tipici violini moohrin khuur (“teste di cavallo”), cantano di gola e nei giorni di Ferragosto organizzano le piccole olimpiadi di Naadim. Corse a cavallo, lotta a corpo libero, tiro con l’arco intrattengono locali e turisti alle porte della capitale Kyzyl, presso il cui teatro municipale viene organizzato il folkloristico concorso di bellezza Miss Tuva.




La città è anche nota per essere il centro geografico esatto dell’intero continente asiatico e, non a caso, conserva un singolare obelisco piantato da un misterioso inglese nel XIX secolo: segno che ne attesta l’accesa spiritualità. Possiede diversi centri di studio sciamanico, dov’è possibile consultarsi con “medici” che guariscono da ogni sorta di malattie e predicono il futuro. Dotata di alberghi di stampo sovietico, in seguito alla riscoperta del best-seller americano “Tuva or Bust” di Leighton, così come del fortunato cd di canti di gola “Voices from the distant steppe” (ripreso da Frank Zappa), da qualche hanno si sta aprendo al turismo di nicchia con una rete di bed&breakfast ed artigianali agenzie d’incoming (www.ecotuva.ruecotuva@tuva.ru). Oltre all’organizzazione d’incontri con sciamani, con tanto di traduttori multilingue, vengono proposte escursioni a laghi salati terapeutici e alle fonti sacre della regione (contraddistinte da pile di pietre e fazzoletti colorati, chiamate ovoo). Viene data anche la possibilità di pernottare nelle tradizionali tende a cerchio chiamate “yurta”, apprezzando la cucina dei locali e le loro esibizioni di canto.              

       




domenica 16 gennaio 2011

HELLO VIETNAM!

“Vientam! Vietnam! Vietnam! Ci siamo stati tutti”. L’urlo di Michael Herr, ineguagliato cronista della guerra americana nel sud-est asiatico, nonché straordinario sceneggiatore di film quali “Apocalypse now!” e “Full metal jacket”, suona oggi più una sfida che un epitaffio di chiusura ai suoi famosi “Dispacci”. Costretti a sorbire per oltre 30 anni i mea culpa di Hollywood, al pari della rinascita dell’orgoglio militarista yankee, il Vietnam di cui tanto, forse troppo, si è parlato sugli schermi - benché inevitabilmente dato per disperso fra i titoli dei giornali e dei notiziari dopo la vittoria dell’aprile 1975 - continua a spiazzare.
Pur senza volerlo, siamo infatti tutti un po’ marines nella terra del drago Tarasco, la leggendaria creatura sonnolenta che disegnò il profilo a panettoncino della baia di Halong Bay, per la gioia delle riviste patinate: ragazzotti ben nutriti che credono di sapere cos’abbiano di fronte, forti della propria moneta quanto un tempo lo si era del proprio mitra, magari meno spigliati nel riconoscere un assolo di Jimi Hendrix alla radio, eppur sedotti dagli strabilianti neon di Ho Chi Minh City (l’ex Saigon) e dalla frenesia liberista del Dai Moi (la politica di “rinnovamento” economico che, dal 1986, ha gradualmente trasformato l’orgoglioso baluardo del socialismo filosovietico nella più aggressiva tigre del sud-est asiatico).
Capita poi d’imbattersi nel museo dei “Crimini di guerra” delle vecchia capitale del Sud, o in un bimbo dall’impossibile volto anfibio, con le gambe deformi e le braccine ridotte a frenetiche pinne a causa dei defolianti americani, per iniziare a chiedersi se non si sia per caso finiti in un incubo astutamente mimetizzato nelle meraviglie della jungla urbana: perché l’orrore in Vietnam, così come avviene nella vicina Cambogia, è stato solo occultato, non cancellato. Sulle candide spiagge di Mui Né, fra le botteghe secentesche di Hoi An o sotto i picchi calcarei di Tam Coc, pare infatti di rivedere il paese brulicante e faccendiere in cui amava puntare il naso Mandarino Tan – sorta d’ispettore Montalbano creato dalla felice penna delle sorelle Tran – ma basta avvicinare un anziano seduto a contemplare una risaia, oppure chiedere ad un giovane perché si accontenti di fumare oppio dalla mattina alla sera, per capire che forse qualcosa non va. Che questa smodata sete di futuro è più paura di guardarsi indietro. Che in mezzo ad un’impressionante massa di ciclisti e motorbikers, trovare una famiglia integra è oggi più arduo che disotterrare una mina fuori casa. Che dietro la retorica del Partito, si aggira ancora lo spettro dell’ex primo ministro “sudista” Ngo Dinh Diem.
Ecco perché l’urlo di Michael Herr è al tempo stesso liberatorio e frustrante. Ci invita a scoprire un paese d’incomparabile bellezza, dalla storia tormentata e gloriosa, capace di bloccare le orde dei Mongoli, di mettere in riga gli eserciti infiniti del Celeste Impero ed umiliare la più grande potenza militare del mondo, salvo poi scoprire insondabilmente il fianco ai vizi peggiori: corruzione, speculazione, prostituzione, diseguaglianze sociali ed amnesie storiche. Il Vietnam di oggi non è il paese granitico che la vecchia guardia del Partito comunista si ostina ad incensare, ma riflette in modo contraddittorio gli slanci eroici e le cadute bibliche delle grandi utopie; un mosaico di fotogrammi che non si lasciano racchiudere in una categoria definita, ma sfumano proprio come le sue 54 minoranze etniche, sui cui volti ci ostiniamo a cercare l’ineffabile Charlie. Di una cosa, però, siamo certi. Quando avremo sentito battere per davvero il cuore di questo Paese, ci ritroveremo davanti alle bandiere del mausoleo di Ho Chi Minh con gli stessi occhi del poeta Evtushenko; e insieme a lui, lasceremo affiorare le parole troppo a lungo taciute: “Arrivederci, bandiera rossa! Eri metà sorella, metà nemica…eri in trincea speranza unanime d’Eurasia, ma tu di rosso schermo recingevi i gulag. Giace la nostra bandiera nel gran bazar d’Ismajlovo. La smerciano per dollari, alla meglio. Io non ho assaltato il palazzo d’Inverno, non ho preso il Reichstag. Non sono un kommuniak. Ma ti guardo e piango…”.

FRA GLI H’MONG E GLI DZAO

Cat Cat – Uno sguardo a destra. Uno a sinistra. La via parrebbe libera; ma non appena metti piede fuori dal tuo rifugio, loro sono già lì. Astutissimi questi H’mong! Quando punti l’obiettivo sui loro meravigliosi costumi ricamati in blu, sui sottili anelli d’argento che lasciano pendere dalle orecchie o su quei visi dai lineamenti più morbidi di un bassorilievo Cham, in qualche modo sanno eludere sempre la tue sete di meraviglia. Se invece il momento è propizio per accollarti una coloratissima borsetta cucita a mano, o addirittura un portacellulare decorato col tradizionale motivo a fiori della tribù, non c’è verso di sottrarsi alle loro insistenti attenzioni. Magari non sanno neppure a cosa serva un “portacellulare”, però hanno capito che quella forma piace agli stranieri in arrivo sotto le pendici del monte Fansipan – a un tiro di schioppo dalla Cina – e allora figlie, madri e nonne si contendono ago e filo per giorni, così come hanno fatto per secoli, decise a strappare la loro ciotola di riso quotidiano. Gli H’mong sono fatti così. Preferiscono vivere del lavoro delle proprie mani, piuttosto che rendersi schiavi delle macchine, o sedere dietro il banco di una scuola. Spianano terrazze al limite della pendenza sui fianchi delle montagne, benché il governo sia pronto a conceder loro immensi campi da coltivare.
Invece no. Essere un H’mong dalle dita blu, uno Dzao dal copricapo scarlatto, o – come avrebbero tagliato corto gli sprezzanti colonialisti francesi – un “montagnard”, significa appartenere al Vietnam che non scende a compromessi. Far parte di quelle tribù che, calate dallo Yunnan cinese nel XVIII secolo o risalite dalle isole australi, continuano a difendere le loro credenze animiste e a rivendicare il diritto alla nomadicità, allorché la loro tecnica agricola del “taglia e brucia” non dia più frutti.
Le tribù “montagnards” vietnamite sono almeno 54 , dislocate da nord a sud lungo la cordigliera dell’Annam, e sono riuscite a guadagnarsi il rispetto del Partito Comunista grazie al prezioso contributo che offrirono negli anni della guerra: facendo scoprire vie secondarie strategiche, o aiutando a trasportare quell’artiglieria letale che aprì ai Viet la vittoria in battaglie epiche come Dien Bien Phu, contro i francesi nel ‘54, o durante la famosa offensiva del Tet nel ’68. Oggi vantano nella capitale Hanoi il più affascinante museo etnologico del Paese, gestito in collaborazione con il Louvre di Parigi, e rappresentano l’altro volto di un Vietnam in gran parte sconosciuto.     

IL LATO OSCURO DELLA CAMBOGIA

Phnom Pehn - Qui la chiamano “madame”. Negli uffici dell’associazione che ha fondato nel 1996, l’Afesip (www.afesip.org), è una sorta d’angelo, una presenza rassicurante che – seppur lontana dalla sua natia Cambogia – lancia messaggi d’aiuto attraverso le foto appese alle pareti, o i manifesti di sensibilizzazione contro lo sfruttamento sessuale. La si vede in compagnia dei sovrani di Spagna, con l’onorevole Emma Bonino o a fianco di papa Giovanni Paolo II: potenti della politica, così come semplici simpatizzanti, chiunque possa contribuire a debellare una delle peggiori piaghe che, insieme all’Aids, affligge la Cambogia d’oggi.
“Ora Somaly Mam si trova in Francia – mi spiega Or Samnang, responsabile amministrativo della sede Afesip di Phnom Pehn – perché in estate è più facile trovare in Europa chi ti ascolti. Certi problemi diventano reali solo quando devi partire per le vacanze. Di fondi, tuttavia, ne abbiamo bisogno sempre: da quando il governo ha deciso di appoggiarci, riusciamo a riscattare dai bordelli decine di ragazze, che vanno poi curate, educate e reinserite socialmente, dopo almeno sei mesi di preparazione”.
Di fronte a noi, una tabella fa il punto sulla situazione a luglio: 148 operazioni di riscatto sono andate a buon fine. Tradotto: 148 ragazze dovranno essere sottoposte ad esami medici, a corsi di specializzazione professionale (come parrucchiere o tessitrici, coltivatrici di riso o disegnatrici d’abiti) e, infine, tornare alla vita civile. Chi viene respinta, a causa di quella macchia che la stessa Somaly continua a portarsi dentro, torna talvolta a prostituirsi: condom e precauzioni sanitarie sono in questo caso l’unica assistenza che l’Afesip può fornire, sempreché durante i rapporti qualcuno non si ribelli piantando un chiodo in testa alla ragazza di turno, o ricorrendo a punizione corporali ispirate al sadismo del carcere di Tuol Sleng, l’ex liceo della capitale che, negli anni ’70, i Khmer rossi trasformarono in una perfetta macchina da morte. 
Nessuno s’illude sui lieto fine dei riscatti, tanto più che il boom turistico degli ultimi anni riversa nel Paese frotte di occidentali pronte a pagare sino a 100 dollari (quasi 3 mesi e mezzo di cibo e vestiti garantiti per un cambogiano medio), per violentare bimbe o bimbi di 8 anni, se non poco più. Per questo diverse associazioni umanitarie cambogiane si sono unite nel progetto “Stay Another Day” (www.stay-another-day.org), grazie al quale è possibile trascorrere parte del proprio viaggio a diretto contatto con realtà forse non pittoresche quanto i templi di Angkor, ma più che mai decise ad urlare al silenzio gli orrori di una guerra conclusasi solo sulla carta.

UNA NOTTE AD ANLONG VENG

Anlong Veng – “Dobbiamo fermarci”. Boreak mi lascia basito. Non che abbia qualcosa da obiettare. In fondo ci troviamo solo dispersi fra le foreste dei monti Dangkrek, a notte fonda, in un punto imprecisato fra il confine settentrionale cambogiano e quello thailandese. Però è la prima volta che sento un khmer prendere posizione, senza cercare almeno di assecondare il suo interlocutore. Un atteggiamento che va contro secoli di buddhismo theravada e che mai ci si sarebbe sognati di tenere sotto il regime di Pol Pot.
“Mine. Qui a lato. Laggiù. Troppo pericoloso”. Effettivamente viaggiare in moto con un solo flebile faro ad illuminare le ombre dell’odio, è forse oltre la portata di chiunque conservi un briciolo di buon senso. Per tutto il giorno mi ha guidato sui luoghi che ogni cambogiano vorrebbe relegare nelle maglie dell’oblio: l’arena di pali rinsecchiti dentro la quale il Fratello n.1, l’artefice del peggior genocidio del XX secolo, venne giudicato dai suoi gerarchi nel 1997; l’ammasso di ceneri del dittatore, cremato su una pira di pneumatici e rifiuti; il masso traballante su cui gli ultimi khmer rossi scolpirono l’orgoglio di quasi 20 anni di guerriglia, ormai braccati dalle truppe governative. L’accondiscendenza di Boreak ha però un limite: ed è forse questa la sua conquista più grande. Fossi stato un suo superiore quando vestiva la divisa da ribelle, sarebbe andato avanti sino a farsi esplodere su una mina. Oggi ha messo su famiglia, lavoricchia come guida turistica e collabora con un suo amico medico, insieme a cui gestisce una cooperativa agricola di riabilitazione per ex soldati, nella lontana provincia di Kompong Thom.
Mi fa accomodare dentro un rudere in cui brucia qualche candela. Sulle pareti scrostate ci sono scritte inquietanti. “Ta Mok assassin de l’histoire!”. “I hate you all!”. “Sangue! Sangue! Qui sanguina tutto”. E’ uno degli ultimi rifugi utilizzato dallo “zio” Mok, il braccio destro di Pol Pot, ormai preda del rancore di chi ha perso tutto per causa sua. Ogni tanto arriva qui gente che ha voglia di pregare, che vuole accarezzare le macchie rosse sui muri per lenire la rabbia degli spiriti. La Cambogia resta pur sempre un paese dove la magia avvince gli animi dei contadini, pronti a sventrare una donna incinta e ad esporre fuori dalle capanne il suo feto, qualora si sentano minacciati dai sussurri delle tenebre. Non è forse il caso della ragazza che vedo accoccolata sulla parete opposta. Mi guarda esterrefatta. “Ciao. Come va? Vengo dall’Italia”. Mi sorride. Il solito, enigmatico sorriso khmer. Un sorriso che non riesce a nascondere i tic di un trauma di cui – malgrado tutto - mai sapremo nulla.
  
NELLE BRACCIA DI BUDDHA

Bangkok – Per un attimo il rito s’interrompe. Mi lasciano sedere sulla soglia del tempio, mi guardano un po’ perplessi, quindi ricominciano ad intonare i loro mantra ipnotici. Senz’altro avranno notato i miei occhi arrossati e l’espressione non troppo sveglia, ma può darsi pensino sia dovuto all’intorpidimento per una levataccia all’alba. Al Wat Arun, quella straordinaria riproduzione del mitico Monte Meru in cui gli antichi dei Indù hanno ceduto il posto alle decorazioni floreali buddhiste, non sono rari i pellegrini della buon’ora. Pagano il loro obolo-bath sulla sponda opposta del fiume Mae Nahm e, in pochi minuti, si lasciano alle spalle la Bangkok del vizio per la quiete monacale. Effettivamente la notte non è stata riposante: deciso a ritrovare le tracce di “Cowboy soldier”, il fratello nero americano che negli anni ’70 ripudiò il Vietnam per inaugurare il primo vero business del sesso nella Città degli Angeli, ho finito per girovagare nel “soi” a lui consacrato imbattendomi solo in squallidi peep-show, anziché in oppierie maledette dove avvicinare reduci nati il 4 luglio.
Di là l’oblio, di qui la palingenesi. Stanchi di una vita fatta di telefonini di grido e creme antirughe, sono sempre più numerosi i giovani che si sottopongono all’iniziazione buddhista per farsi monaci mendicanti. Se in paesi quali la Birmania o la Cambogia è ancora un buon metodo per ricevere istruzione e di che sfamarsi, qui in Thailandia è piuttosto l’eccesso di consumismo ad illuminare la via del Nirvana.
Mi domando chi sia quel ragazzo già un po’ pingue e rapato a zero, che i fratelli in tunica arancione obbligano a sedere sui calcagni, procurandogli violente fitte nelle gambe. Ogni volta che stecca una formula imparata a memoria, deve ricominciare la preghiera da capo, ripetendola sino all’ossessione, armonizzando la sua voce a quella della congregazione paciosamente accovacciata sotto la stutua d’oro di Siddartha. Quindi il momento della benedizione: un fiore di loto viene intinto nell’acqua santa, cosicché le gocce possano essere asperse sul suo capo penitente. Si sfaldano sui tappeti le ceneri aromatiche degli steli votivi: è tempo di tornare al di là della sponda e fare i conti con la propria coscienza. 

venerdì 14 gennaio 2011

INFERNO VERDE


Leticia - Arranca. Sbuffa. Tossisce gli ultimi spasmi intossicati. L’ennesima finta, ma ogni volta il cuore ti balza in gola. Quando il motore della bagnarola s’ingolfa, sembra di trovarsi improvvisamente anni luce distanti da qualsiasi traccia d’umanità. Di fatto il piccolo villaggio di Puerto Nariño è a meno di venti minuti dalle acque del lago Tarapoto e, se proprio la nostalgia delle drogherie in cui si vendono mate de coca o collanine in denti di piraña non dovesse passare, a qualche ora di torbidi ondeggiamenti si può sempre riparare a est, verso Leticia: ultimo avamposto civile prima della grande incognita chiamata Amazzonia, nonché  capoluogo dell’estremo dipartimento meridionale colombiano, il cosidetto “trapezio”. Uno spazio di 6.275 chilometri quadrati che la Colombia si conquistò negli anni ’30 a spese del Brasile, in aggiunta ad un territorio selvaggio già di per sé ampio, ma privo di un accesso al Rio delle Amazzoni, vitale quanto un’aorta nell’economia singhiozzante del Sudamerica. 


Fondata il 25 aprile 1867 dall’ingegnere Benigno Bustamante, Leticia conta oggi ben 35mila abitanti e rappresenta il cuore di una regione di libero traffico dove, con poche bracciate dentro le acque del temibile fiume, è possibile lasciarsi alle spalle la terra di Simòn Bolivar per una propaggine carnascialesca di rumba carioca o per sfiorare un lembo di Perù dallo sguardo rapace. Maggio è infatti uno dei pochi mesi in cui non si rischia la pelle, qualora si volesse sguazzare nel più lungo fiume del mondo: gonfiando le acque del letto, le piogge della stagione umida spandono il suo bacino sino ai terreni d’inizio foresta, ricchissimi d’insetti e ghiotti batteri che fanno la gioia dei pesci carnivori. Lì si concentrano le “acque scure”, quelle impenetrabili all’occhio del pescatore e da lui puntualmente evitate, conscio dei tabù che la natura stessa fissa per ogni specie. 

Ma se da una parte essa toglie, dall’altra la sua mano è pur sempre prodiga: ognuno ha il suo, perché la foresta non tradisce mai i suoi figli, benché pretenda che sappiano cavarsela solo con le proprie forze e il proprio ingegno. L’Amazzonia resta infatti la biosfera di maggior selettività al mondo, nella quale persino una minuscola formica gialla diventa un avversario di tutto rispetto, possedendo un siero urticante che, con un solo morso sull’avambraccio, riesce a paralizzarne i muscoli per almeno otto minuti. Otto minuti in cui le porte dell’Inferno si spalancano per dispiegare le sue peggiori atrocità. Unita alle sue consorelle, dà così vita ad un esercito di guerriglieri ancora non ufficialmente riconosciuto dal presidente Uribe, troppo impegnato a fronteggiare gli indipendentisti marxisti e i narcotrafficanti del sud-est, ma altrettanto minaccioso ed efficace. 

Per secoli le infaticabili inquiline dell’albero Tangarana sono state il miglior alleato delle popolazioni indigene, ma un patto di reciproco spalleggiamento pare sia stato siglato di nuovo: oggi le tribù più isolate sono infatti prese di mira da bracconieri famelici, sempre in cerca di pelli di giaguaro e squame di boa da sottrarre ai villaggi della foresta, sì da soddisfare le pretese onnivore di un mercato che non conosce giustizia: moderna Kalì perennemente assetata di sangue, Quetzal senza più piramidi sacrificali, ma capace di fare proseliti fra i superbi successori dei conquistadores di Cortez. Come loro, i bracconieri odierni s’avventano nella foresta forti di fucili e mitragliatori, convinti che la superiorità tecnologica avrà infine ragione di chiunque incroci il loro cammino, salvo poi ritrovarne gli scheletri legati al tronco di qualche pianta, vinti dalle terribili sofferenze inferte proprio dal morso delle formiche gialle, o infilazati dagli aghi di cerbottane intinti nella pelle delle rane velenose. 

In Colombia il governo non ha ancora sviluppato un network wireless simile a quello improntato in Brasile, dove le popolazioni indigene “a rischio di bracconaggio” possono collegarsi in tempo reale al web e segnalare all’esercito le minacce incombenti: qui gli Yacuas, gli Huitotos e i Ticunas sono e restano veri indigeni, non attori dalla pelle scura che indossano costumini succinti per la gioia dei turisti, o che partono di tanto in tanto per gli studi televisivi dell’Occidente con smisurati pendagli indosso, decisi ad arricchirsi astutamente in nome dell’Amazzonia ferita ed umiliata. Se mai teatro si dà, questo assume i toni gioiosi e un po’ ingenui del festival internazionale “Confraternidad Amazonica”, in programma ogni anno dal 15 al 20 luglio a Leticia: periodo nel quale la cittadina si ripulisce da fango e liane per trasformarsi nel palcoscenico di abili danzatori tribali, robusti natanti pronti a sfidarsi in canoa ed infallibili tiratori d’arco o cerbottana. Quasi un anticipo dell’altrettanto colorato “Festival autoctono de danza, murga y cuento” che va in scena fra il 29 ed il 31 dicembre a Puerto Nariño, impreziosito però dall’elezione dell’affascinante “Señorita Ticoya”, così come dalla partecipazione di ben 22 comunità municipali. 

Poche restano infatti le concessioni che le tribù colombiane fanno all’occhio indiscreto dell’avventuriero, preferendo i sibili ed i mormorii della jungla agli strepiti del mercato. Le più ardite sono disposte ad accogliere nel loro villaggio i bianchi in arrivo dal Rio, cercando di racimolare qualche pesos attraverso la vendita di ornamenti in ossa e piume, o lasciandosi fotografare un po’ esterrefatte mentre coccolano chi un bradipo, chi un orsetto lavatore goloso di banane. 
Ancor più dei soldi, magici foglietti volanti capaci di dare un valore a quanto non si tocca e non si vede, sono le magliette colorate i baratti più graditi, i cappellini che riparano dalle frequenti piogge, per non parlare dei quaderni e delle penne grazie ai quali inizia il riscatto dalla fatica e si dispiega la conquista dei sogni di cartapesta. C’è però qualcosa d’inspiegabile nel loro sguardo: gli occhi degli anziani sono spenti, delusi, sono gli occhi di chi sembra aver perso la propria battaglia. Quelli dei giovani, ma ancor più dei bimbi, hanno invece un che di ostile e rapace: vogliono, desiderano, ma in fondo non si fidano. Come se presentissero che dietro tutta quella manna ingiustificata, si stia nascondendo un subdolo tranello. 

Forse qualcuno è riuscito a raccontare degli strani “giochi” che gli adulti bianchi propongono loro, quando li portano con sé in remoti e perduti paradisi. Forse è la semplice paura di non rivedere più la propria casa, com’è accaduto a quegli amici che avevano solennemente promesso di tornare con grandi ricchezze ed ora sono spariti nel nulla. Scomaparsi senza più traccia, disonorando una parola che qui è ancora sacra. Tradendo, senza immaginare che altrove stava il tradimento. Per questo la loro ammirazione non va tanto ai membri delle tribù sedentarie, per scelta o per necessità disposte al compromesso, ma ai nomadi della foresta, ai piedi veloci dei Nurak Maku: una delle ultime popolazioni che vive spostandosi da un nascondiglio all’altro, che teme i raffreddori mortali portati dall’uomo bianco, ma non le fauci dei giaguari o i morsi delle tarantole. 



Loro seguono riti talvolta crudeli, talvolta irresistibilmente ludici, ma mai incoerenti. Durante “La Pelasòn”, alle ragazze vinte dal primo ciclo mestruale non vengono semplicemente tagliati i capelli, per inaugurare la loro nuova vita da donne, ma questi sono strappati con una speciale resina attraverso cui si cambia pelle alla stregua del colorato serpente dei miti ancestrali L’isolamento all’interno della maloca, sacra costruzione circolare dove gli sciamani consultano i Tre Mondi bevendo ayahuasca e le donne insegnano le virtù dell’esser madre, non è un capriccio fra l’aderire alle credenze tradizionali o l’abbracciare uno strano uomo biondo messo in croce. Significa accettare di diventare qualcosa che non si sarà mai più, non certo voler apparire a seconda di come soffino i venti ed ostinarsi ad inseguire traguardi che il tempo ha già segnato. E ancora: imbattersi nello Yurapari, quando il dio della fertilità irrompe fra le capanne di iuta per battere le giovani col suo enorme fallo ligneo, il Capinuri, non è una sconcezza che perde l’anima agli Inferi, bensì il prender coscienza che il momento è fausto per assecondare  il proprio destino di perpetuatori della specie.

Nulla accade per caso in Amazzonia. C’è un tempo per la fioritura della Victoria Regia, il più grande loto del mondo capace di sostenere sulle sue foglie persino un bimbo, e un tempo per le incursioni delle scimmie sull’Isla de los Micos. C’è un tempo per risalire i fiumi a nuoto e lottare con le proprie mani contro le anaconde, ed uno per capire che la forza a volte conta meno della parola, che l’esser guida può aiutare più che l’esser cacciatori, che diventare una leggenda vivente  - come l’indio-tedesco “Capax” - può meglio cibare di emozioni chi è pronto a devastare un’Eden, pur di cogliere la mela della conoscenza. 



Allora poca importa se il recondito El Dorado oggi ha trovato un nome ed un luogo nel lago vulcanico di Guatavita, alle porte di Bogotà. Oro, in fondo, è stato raccolto dalle sue acque e non è difficile immaginare su di esse il lento incedere della zattera di uno sciamano, che sotto gli occhi intimoriti dei fedeli getta a mollo le offerte con cui placare la rabbia degli dei zoomorfi, o grazie a cui evocarne la protezione. 

Né deve dolere se gli sfavillanti corredi sacri, le maschere enigmatiche e le ali per fendere le nebbie dell’allucinazione siano state raccolte nel Museo dell’Oro della capitale, dove semplici profani possono subodorare il loro potere metamorfico e trasmigratorio, ignorando la vera sorte dei Sinù, dei Tairona, dei Quimbaya  e dei Muisca, spazzati via dalla furia della cupidigia, così come dalla cecità intollerante.
Anche l’uomo bianco ha bisogno dei suoi feticci, perché le vetrine lucenti della capitale non bastano più. Sorde sono le parole che si odono fra le colonne barocche della cattedrale di Plaza Bolivar, lontano il richiamo delle sue campane, disabitate le case dai colori pastello che illuminano l’antico quartiere de La Candelaria.  

Ad un piatto manieristico come l’ajiaco, con patate, grano, huasca e pollo, oltre a fette di avocado, capperi e riso, inizia ad essere prediletta una semplice portata di pesce pescado e banane fritte. Qualcosa nell’aria umida inizia a far presentire di esser diventati prigionieri del troppo. Del superfluo. L’occhio dell’uomo dimentico di sé non riesce infatti a trovar più le giuste dimensioni del mondo circostante: vede forme dilatate come le donne di Botero o al limite dell’anoressia, affida al bisturi i ritocchi di corpi caraibici ormai incapaci di onorare la loro antica fama seduttiva, si affanna alla ricerca di un delfino rosa o grigio, senza rendersi conto che la benzina del sua imbaracazione sta per esaurirsi davvero.

Danza, ride e scherza, come i vip che affollano le sale turbinose del ristorante Andres Carne de Res, come gli ospiti di quel lussuoso battello che risalì un tempo il Rio delle Amazzoni e inconsapevolmente ne fu inghiottito dalle sue isole fantasma. Isole su cui boa conscritor, caimani e zanzare malariche non sono disposti a concedere alcuna chance ad un animale a tal punto addomesticato, d’aver persino dimenticato il luogo da cui un tempo emerse. Sporco di fango, con la lancia in pugno e la bocca ferocemente spalancata.


mercoledì 12 gennaio 2011

NON APRITE QUELLA TOMBA

SpiceJet ha scagliato la prima pietra. “Venite a Srinagar, la città che ospita la tomba di Gesù”. Così recitava la sua rivista di bordo la scorsa primavera, quando la giovane ed arrembante compagnia low-cost indiana era intenta a promuovere la rotta da Delhi verso la capitale del Kashmir.
Putiferio. Le comunità cristiane locali insorgono. Qualcuno parla di bestemmia pubblicitaria. A Roma i vertici del Vaticano rumoreggiano. Eppure il collegamento aereo non avrebbe alcun bisogno di scoop, visto che sono in pochi a preferire 24 ore di bus per raggiungere l’estrema appendice settentrionale dell’India, ancor meno quelli che scelgono di viaggiare su rotaia: la tratta ferrata oggi disponibile s’interrompe nella polverosa cittadina di Jammu, da dove partono alcune jeep per un ulteriore slalom himalayano di 7 ore, in attesa che fra due anni o più si completino i lavori per l’attivazione del treno rapido diretto.


In realtà SpiceJet non ha fatto altro che dar voce ad una teoria da tempo circolante sul Kashmir, ma attorno alla quale il mondo del turismo ha sempre mantenuto un atteggiamento ambiguo: quella per cui le verdi vallate a ridosso del Pakistan sarebbero l’autentica “Terra Promessa”, “il Paradiso in Terra” di cui i testi biblici fanno menzione da millenni, a tal punto che qui pare abbiano riparato alcune delle dieci tribù perdute d’Israele. Non da ultimo, sulle loro tracce, proprio Gesù. 

Certamente questa regione, insieme all’attiguo Ladakh, è meta sospetta di un numero di ebrei impressionante, soprattutto se comparato col resto del Paese o con altre destinazioni al mondo: ristoranti con la stella di David si trovano a destra e a manca, forse perché le zampette bollite di capra sono una specialità in comune con gli antichi beduini del Negev, mentre l’aramaico fa sempre chic, quasi quanto parlare un inglese oxfordiano o l’hindi forbito della neoborghesia in turbante. Sulla punta delle dita i kashmiri potrebbero però enumerare mille altre analogie col Popolo Eletto: non impiegano grasso per friggere il pane, ma usano solo olio; dispongono di coltelli a forma di mezzaluna; hanno timoni delle barche a cuore, del tutto simili ai corrispettivi in Galilea, o vestiti tradizionali quasi uguali agli israeliti, o ancora ragazze che danzano in due file contrapposte e a braccia unite. Hanno persino tombe orientate sulla direttrice est-ovest, a dispetto di quelle tipicamente islamiche disposte sull’asse nord-sud. 
Non appena si sbuca dal lungo tunnel che fende i primi rilievi dalle piane soffocanti del Punjab, lo stupore sui visi è allora pari solo a quello di Mosé sul monte Nebo: l’aria si fa fresca e profumata di chinar, la pianta aromatica simbolo del Kashmir, polvere e scabre rocce vengono improvvisamente riassorbite da una natura in pieno rigoglio, mentre le acque del Dal Lake sembrano poter dissetare eserciti di profughi con la gola a secco da 40 anni di deserto. Difficile credere che fra queste lande si siano combattute le guerre più sanguinose della storia indiana, se non fosse per una massiccia presenza di militari, che occhieggia il passo dei visitatori metro per metro. Dopo l’ultima incursione del Pakistan nel 1998, Delhi tiene costantemente il coltello fra i denti ed oggi, in tutto il subcontinente himalayano, non c’è luogo più sicuro di questo tormentato lembo diviso fra due nazioni gemelle: ben 70 divisioni dell’esercito sono stanziate proprio qui, per un totale di oltre mille uomini in allerta 24 ore su 24. A Srinagar filo spinato e torrette di controllo fanno concorrenza diretta ai chioschi di pakora fritti. Lungo le due principali direttrici che corrono a ridosso del confine pakistano è invece più facile scambiare un cecchino in mimetica per una fascina fronzuta, magari in spalla a qualche pastore vinto dalla fatica delle serpentine. 


La sensazione è che in Kashmir, al di là della leggendaria bellezza delle houseboat e delle coloratissime shikaran che ondeggiano sugli specchi lacustri, sia preservato qualcosa d’immensamente prezioso ed arcano. Già lo aveva intuito l’esploratore russo Nicolai Notovitch, quando sul finire dell’Ottocento venne a conoscenza della bizzarra storia di un messia approdato alle pendici himalayane, mentre alcuni monaci buddisti gli stavano offrendo assistenza presso il monastero ladakho di Hemis. Come molti altri eremi della zona, custodiva antichi testi sacri che narravano di un certo Yesha, o Juzu, o ancora Issa, giunto da lontano per predicare l’amore e la carità universale, fra uomini impegnati da secoli a cercare la salvezza ultraterrena per conto proprio (secondo i dettami della scuola Hinayana, o del Piccolo Veicolo). 

Il suo arrivo coincise con la grande svolta teorica adottata durante il Quarto Concilio buddista, che promosse il Grande Veicolo di salvezza per l’umanità intera (la cosiddetta scuola Mahayana) ed ebbe luogo ad Harwan, una dozzina di chilometri da Srinagar. Presso l’odierno sito archeologico, tanto defilato quanto cruciale per le sorti della spiritualità asiatica, si possono contemplare le suggestive fondamenta delle strutture adibite al Concilio, la cui disposizione segue la grafica ipnotica degli yantra da meditazione.
Non dovrebbe sorprendere, a questo punto, sapere che la maggior parte delle raffigurazioni locali del Buddha richiama l’incarnazione dell’Amida, ovvero del “Salvatore”: fra gli esempi più eclatanti spicca l’imponente scultura di otto metri che, su un picco solitario del villaggio di Mulbekh, segna il confine fra il Ladakh buddista e il Kashmir islamico.


Nei modelli di statue risalenti al I secolo dopo Cristo, un fiore di loto appare oltretutto nel palmo di ciascuna mano e sotto la pianta dei piedi, quasi a richiamare le famose stimmate di Cristo.

Le stesse visibili in modo ben più tradizionale nel calco dei piedi del santo Yuzu Asaf, la cui cappella di sepoltura (Rozabal) si trova proprio al centro di Srinagar ed è meta venerata da fedeli di ogni confessione.  Quasi non bastasse, la capitale kashmira è dominata da un antichissimo tempio noto come “Trono di Salomone”, alla base del quale è stato espressamente trascritto che fu il santo Yuz Asaf – conosciuto come il Messia - a far ristrutturare l’antico sito dei suoi padri. Al pari del tempio di Martand, ispirato all’architettura ebraica, per secoli il Trono era rimasto abbandonato a se stesso.


Indubbiamente il Kashmir archeologico appare una miniera di ricordi preziosissima, ma ancora poco studiata rispetto alla ricchezza e all’importanza dei suoi reperti, soprattutto per via delle tensioni internazionali.   Persino la momentanea scomparsa di un pelo della barba di Maometto – venerato a Srinagar nella moschea bianca di Hazratbal – è stata sufficiente per portare il paese sul baratro di un conflitto.





















Oltre a possedere numerose località le cui matrici linguistiche hanno permesso di ridisegnare la carta geografica di una “Terra Santa” alternativa (si pensi agli evocativi “bagni di Mosé” nel piccolo villaggio di Bijbjara, dove le truppe pakistane hanno però gettato in acqua la millenaria pietra sacra ka-ka-bal, lasciando un “leone egizio” a sola ed offesa testimonianza), i territori a cavallo fra India e Pakistan celano tombe d’immensa rilevanza religiosa oggi quasi inaccessibili: fra queste, il sepolcro di Maria a Mari e di Mosé a Buth. 




O, come vorrebbe lo storico Fida Hassnain, proprio quella di Gesù. Il Messia “aiutato” a risorgere dalla setta degli Esseni, cui pare appartenesse, dopo tre giorni di cure nel Santo Sepolcro e una complessa fuga dalla Palestina. Superata la cittadina di Bandipura, lo spettro dei Talebani aleggia però minaccioso e il Kashmir storico deve tornare a fare i conti con il Kashmir politico. 


C’è chi preferisce dunque abbandonarsi alla serenità distaccata del Dal Lake e dei suoi canali navigabili, dedicandosi all’osservazione della ricchissima avifauna o barattando quotidianamente verdure al mercato galleggiante, e chi invece perdersi fra gli impetuosi torrenti della valle di Pelgham; c’è chi sceglie di setacciare le qualità del pregiatissimo zafferano coltivato a Pampur, e chi di lanciarsi a cavallo fra le popolazioni nomadi delle foreste.


D’altra parte qui paiono tutti in cerca di un proprio perché, rapiti da verità divine e vizi sin troppo umani. Forse il destino di ogni Terra Promessa: dannatamente vicina, quanto impossibile da credere.  



QUATTRO CHIACCHIERE CON FIDA HUSSNAIN

“Avanti! Avanti! Non perda tempo!”. Neppure una stretta di mano: il cancello anti-proiettile è già chiuso alle spalle. Per quanto il professor Fida Hussnain non rifiuti mai una visita nella sua graziosa villetta, scovarlo nella labirintica periferia di Srinagar non è affatto facile. Qui le vie s’attorcigliano come serpenti Naga, mentre la cinta di mura attorno alla sua abitazione è talmente alta che occorrerebbe un trampolino per scavalcarla. Da quando il suo libro più famoso, “Sulle tracce di Gesù l’Esseno” (1994), è diventato un best-seller internazionale, vivere nella capitale kashmira s’è fatto molto difficile. Non bastano i suoi venerandi 86 anni per godersi la pensione dopo una vita spesa come direttore degli Archivi Statali di Srinagar, né aver ricevuto la più alta onorificenza tributata ai ricercatori archeologici dal Governo di Jammu&Kashmir per passeggiare in città senza finire nel mirino di qualche integralista. I più scettici non si curano neppure del fatto che abbia conseguito il massimo grado di maestro sufi, a tal punto da essere considerato uno dei pochi esperti di mistica islamica capace di giostrarsi pure sul web (www.myasa.net); né sono pronti a riconoscere oltre sessant’anni di studi su fonti buddiste, sanscrite, persiane e himalayane: le teorie di Hussnain sulla sopravvivenza di Gesù alla Crocifissione continuano a dare scandalo e i Paesi di maggior impronta conservatrice (Italia inclusa) preferiscono boicottare i suoi libri, piuttosto che invitarlo a dibattiti pubblici. Per alcuni far visita al professore significa oggi provare il brivido del proibito,  ma chiunque desideri davvero spingersi oltre la banalità del Vero non ha che da aprire quel cancello.



LE HOUSEBOAT DEL LAGO DAL

Cosa non s’inventa per tener lontani ospiti sgraditi. Sul Dal Lake le houseboats sono oggi lussuosi alberghi galleggianti dove rifuggire il caos di Srinagar, ma sino a poco più di 70 anni fa apparivano una delle armi diplomatiche più ingegnose. Volendo impedire agli inglesi di rilevare immobili sul proprio territorio, il maharaja del Kashmir escogitò nell’800 queste barche di legno finemente intagliato e preziosi tappeti, grazie alle quali i capricciosi diplomatici di Sua Maestà non avrebbero potuto vantare diritti di superficie.

Poco è però cambiato. La Houseboat Owner Association (www.houseboatowner.org) si occupa tuttora di assegnare questi posti letto ai turisti più pretenziosi, o dal cuore perdutamente romantico.    




KASHMIR IN PILLOLE



DATI GENERALI
Il Kashmir è lo stato più settentrionale ed islamizzato dell’India, ma per ragioni di controllo politico divide il suo territorio con le amministrazioni del Ladakh, di antica tradizione buddista, e di Jammu, la cui matrice è invece induista. Parte del suo territorio appartiene anche al Pakistan e alla Cina, ragion per cui si è ritrovato al centro di sanguinose guerre nel 1947/48, nel 1965 e di nuovo nel 1999. Oggi gode di limitata autonomia sotto l’amministrazione democratica di Delhi, ma forti sono le rivendicazioni del movimento indipendentista.  

FUSO ORARIO
Quattro ore e mezzo in più dell’Italia, tre ore e mezzo in estate, quando da noi è estate

CLIMA
Se la fascia pianeggiante del territorio di Jammu risulta tendenzialmente umida e piovosa, il Kashmir gode di un clima fresco e temperato per buona parte dell’anno, simile nella stagionalità a quello del nord Italia. Solo i mesi invernali sono molto più rigidi, trovandosi ad un’altezza media di circa duemila metri. L’area del Ladakh, totalmente distribuita sull’Himalaya, è invece arida e secca in estate, freddissima d’inverno.

SALUTE
Non sono richieste vaccinazioni e non c’è pericolo di contrarre malaria. Per evitare problemi intestinali è consigliato mangiare solo cibi cotti, frutta sbucciata e bevande imbottigliate o bollite.

PREFISSI
Per chiamare l’India occorre digitare doppio zero, seguito dal codice 91.

LINGUA
L’hindi è la lingua ufficiale, ma il kashmiro quella tradizionale. Sono molto diffusi sia l’inglese che il tedesco, ma limitatamente alle città di Srinagar e Kargyl.

DOCUMENTI
Passaporto valido minimo sei mesi, con visto rilasciato dagli uffici consolari di Roma o Milano.

VALUTA
Rupia indiana. Cambio attuale: 1 euro = 69 rupie

RELIGIONE
La grande maggioranza della popolazione kashmira è islamica, con orientamento sufi, anche se da alcuni anni si sta facendo largo la corrente sciita. Sono comunque presenti luoghi di culto induisti, buddisti e cristiani, per via dei costanti spostamenti di truppe del governo indiano.

INFORMAZIONI
Ufficio nazionale del turismo indiano, via Albricci 9 – 20122 Milano. Tel. 02.804952; fax 02.72021681. Siti: www.indiatourism.com; www.jammukashmir.nic.in

COME ARRIVARE
La tratta Delhi-Srinagar è oggi coperta non solo dalla compagnia di bandiera AirIndia, ma anche dalle competitive JetAirways, KingFisher, SpiceJet, JetLite e GoAir. Tariffe e tratte possono essere comparate sui siti www.yatra.com, oppure www.makemytrip.com. Ogni giorno partono sleeping-bus dalla stazione centrale di Delhi ed impiegano 24 ore per arrivare a Srinagar. In alternativa si può combinare il treno per la tratta Delhi-Jammu, quindi il bus o jeep da 6 posti sulla tratta Jammu-Srinagar (in totale 18-20 ore).

DA LEGGERE

“Storia dell’India e del Pakistan”, di Sumit Ganguly (ed. Mondadori, 2004)
“Sulle tracce di Gesù l’Esseno”, di Fida M. Hassnain (ed. Amrita, 1997)
“Jesus lived in India”, di Holger Kersten (ed. Penguin, 2001)